Ipertensione nell'anziano: linee guida

Alberto Fisichella - Medico in formazione specialistica in Geriatria

12 Febbraio 2018

Il connubio invecchiamento-ipertensione è da sempre uno dei più noti in medicina. Molto spesso all’aumentare dell’età si riscontra un aumento progressivo dei valori di pressione arteriosa (PA), un fatto che inevitabilmente si traduce nell’aumento della prevalenza di soggetti ipertesi nelle più avanzate decadi di età.
Più di quindici anni fa è stato messo in evidenza come individui normotesi dall’età di 55 anni in poi abbiano il 90% di rischio durante la vita di sviluppare ipertensione arteriosa [1]. Questo rischio è dipendente dalla razza, essendo maggiore per soggetti afro-americani e provenienti da Paesi extraeuropei di lingua spagnola rispetto a quelli di razza bianca o asiatici [2].
Le ultime linee guida per il trattamento dell’ipertensione sono state redatte nel 2017 dall’American College of Cardiology (ACA) e dall’American Heart Association (AHA) [3] e rappresentano un aggiornamento delle precedenti linee guida del 2003, identificate come “settimo report della Joint National Committee” da cui la sigla che le specifica “JNC7” [4]. Un ulteriore report è stato realizzato nel 2014 da parte degli esperti dell’ottavo “Joint National Committee” o “JNC8” [5]. Senza dimenticare che anche altre società negli anni passati si sono prodigate nella pubblicazione di raccomandazioni sull’ipertensione arteriosa, per esempio quelle del 2007 da parte della Società Europea dell’Ipertensione e della Società Europea di Cardiologia [6].

Perché l’ipertensione arteriosa è considerata così importante, tanto che negli anni sono state stilate diverse linee guida sulla sua diagnosi e trattamento, compreso questo recente aggiornamento? La risposta è facilmente deducibile: l’ipertensione è uno dei fattori di rischio cardiovascolare più noti e comuni nella popolazione mondiale, anzi è stato definito come il più comune fattore di rischio cardiovascolare modificabile [7]. In una metanalisi di 61 studi, nella fascia d’età 40-69 differenze di 20 mm Hg in più di SBP and 10 mm Hg di DBP erano ciascuno associati con raddoppio del rischio di morte per stroke, cardiopatia e altre patologie vascolari [8]. Esiste una relazione complessa e interdipendente tra l’ipertensione e gli altri fattori di rischio cardiovascolare, che trova la sua base nei diversi meccanismi fisiopatologici che le malattie cardiovascolari hanno in comune: l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone, l’aumentata attività del sistema nervoso simpatico, il rilascio dei peptidi natriuretici, la disfunzione endoteliale. Pertanto, è importante nella valutazione del paziente la misura del danno d’organo subclinico, intesa come dimostrazione laboratoristica e strumentale di quelle alterazioni asintomatiche a carico del microcircolo del sistema cardiovascolare, del rene, del cervello e della retina; tale danno rappresenta uno stadio iniziale cruciale in quel continuum che collega i fattori di rischio, compresa l’ipertensione, con lo sviluppo di eventi cardiovascolari, sia fatali che non fatali. Per tutti questi motivi si capisce perché la maggioranza degli ipertesi mostra anche altri fattori di rischio cardiovascolare, e perché l’ipertensione e gli altri fattori di rischio, se presenti contemporaneamente, possono potenziarsi a vicenda, risultando in un controllo pressorio più difficile dal punto di vista terapeutico.

Come esiste la strategia di prevenire la cardiopatia ischemica mediante la quantificazione del rischio cardiovascolare globale, allo stesso modo tale approccio è stato preso in considerazione e integrato all’interno delle precedenti linee guida del 2003 [4]. Ne deriva una suddivisione del rischio di mortalità cardiovascolare a 10 anni in basso, moderato, alto e molto alto. Il riferimento all’importanza di calcolare questo rischio è presente anche nelle ultime linee guida del 2017 [3] ma con alcune modifiche. Le novità non riguardano solamente questo aspetto ma anche la classificazione delle misure di pressione arteriosa che definiscono le categorie di ipertensione.

L’edizione JNC7 considerava lo stadio 1 dell’ipertensione per valori di PA sistolica 140-159 mmHg o diastolica 90-99 mmHg e lo stadio 2 per valori di sistolica maggiori o uguali a 160 mmHg e diastolica 100 mmHg. Esisteva anche la categoria della “pre-ipertensione”, indicata da valori di 120-139 mmHg per la sistolica e 80-89 mmHg per la diastolica. Le più recenti linee guida invece cambiano la classificazione: la pressione è ora considerata normale quando la sistolica è inferiore a 120 mmHg e la diastolica inferiore a 80 mmHg; la pressione è elevata per valori di sistolica compresi tra 120 e 129 mmHg e di diastolica inferiore agli 80 mmHg; l’ipertensione viene classificata di stadio 1 in caso di sistolica 130-139 mmHg o diastolica 80- 89 mmHg e come ipertensione di stadio 2 in caso di valori di sistolica maggiori o uguali a 140 mmHg o di

diastolica maggiori o uguali a 90 mmHg. Si parla infine di crisi ipertensiva se la sistolica risulta maggiore di 180 mmHg e la diastolica di 120 mmHg. Le novità principali pertanto sono costituite dalla scomparsa della categoria intermedia di pre-ipertensione con l’introduzione di quella di pressione elevata, e dall’abbassamento del livello di normalità per cui, in poche parole, «130/80 è il nuovo 140/90». Il razionale di queste modifiche si basa su dati osservazionali sulla PA sistolica e diastolica e rischio cardiovascolare e su studi d’intervento mirati a valutare le modifiche dello stile di vita e la terapia antipertensiva.
Questo nuovo limite dei valori di normalità porterà ad avere nella popolazione di ipertesi americana un 14% in più, così la prevalenza salirà dal 32% al 46%. A triplicare saranno soprattutto i soggetti di età inferiore a 45 anni, mentre le donne appartenenti alla medesima fascia d’età raddoppieranno.
I criteri di normalità dei valori pressori cambiano secondo il contesto o la tecnica di rilevazione adottata. Le nuove linee guida forniscono anche una guida comparativa dei valori pressori rilevati nei diversi ambiti quali l’ambulatorio, il domicilio e la misurazione mediante l’Holter pressorio della pressione di giorno, di notte e della media delle 24 ore. Esiste una forte evidenza da studi clinici per cui la PA di un individuo all’infuori del setting clinico ha un ruolo predittivo maggiore sugli outcome rispetto alle misurazioni eseguite in ambito clinico [9].

Sebbene gran parte dell’esperienza derivata dai precedenti studi clinici sia basata sui metodi di misura tradizionali della PA, le nuove linee guida sottolineano l’importanza delle misurazioni pressorie casalinghe per confermare la diagnosi di ipertensione ed eventualmente modificare la terapia. Ciò significa che diventa importante implementare l’utilizzo di macchinari automatici, che siano ovviamente strumenti validati da adoperare in maniera corretta e con tutte le attenzioni che la misurazione della pressione comporta.

In merito alle raccomandazioni relative alla terapia, l’aggiornamento 2017 sottolinea l’importanza dei cambiamenti nello stile di vita, definita come terapia non farmacologica, ad ogni categoria di pressione arteriosa e riserva la terapia antipertensiva ai pazienti in stadio 1 a più alto rischio e a tutti i pazienti in stadio 2.
Nonostante siano disponibili diversi strumenti di valutazione del rischio cardiovascolare, quello raccomandato dalle linee guida è l’ACC/AHA Pooled Cohort Equations che consente di stimare il rischio a 10 anni di malattia cardiovascolare aterosclerotica.
Le soglie di trattamento sono abbastanza simili per le varie comorbidità e sono valide per pazienti di tutte le età. L’obiettivo di trattamento è per tutti gli individui sotto 130-80 mmHg [3].
Ritornando al tema ipertensione e invecchiamento, esiste una serie di fattori da tenere in considerazione nella valutazione della persona anziana ipertesa.
Innanzitutto, tra i fattori di rischio di ipertensione immodificabili o difficili da modificare le linee guida del 2017 non riportano soltanto l’invecchiamento ma anche il basso stato socioeconomico e lo stress psicosociale, i quali sempre più spesso caratterizzano la figura dell’anziano e ne influenzano lo stato di salute.
Da non trascurare è anche l’eterogeneità delle condizioni con cui si presentano i pazienti anziani: ci sono soggetti in buono stato di salute con limitate patologie croniche, mentre altri sono anziani fragili, sottoposti a polifarmacoterapia, che presentano multimorbidità o altri problemi complessi [10]. Per fragilità si intende uno stato tipico dell’individuo in età avanzata caratterizzato da un declino delle riserve fisiologiche e funzionali dell’organismo che, a differenza di quanto succede nel giovane e nell’adulto, è causa di aumentata vulnerabilità ad eventi stressanti o destabilizzanti con conseguente compromissione dello stato di salute. Secondo i criteri largamenti accertati di Fried, un soggetto è definito fragile quando sono presenti almeno tre di queste consdizioni: perdita di peso maggiore di 4,5 Kg nell’ultimo anno, affaticamento, riduzione della forza muscolare, ridotta attività fisica, riduzione della velocità del cammino [11]. La fragilità è differente dalla disabilità, cioè la difficoltà fisica o mentale che limita lo svolgimento delle normali attività quotidiane e che determina, in ultima analisi, la perdita dell’autonomia. È inoltre diversa dalla multimorbidità, data dalla presenza di due o più patologie differenti ma simultanee. In questo panorama di presentazioni cliniche così eterogeneo, può essere difficile e a volte può rivelarsi una sfida trovare la migliore strategia di trattamento dell’ipertensione arteriosa. Ne deriva la necessità di approfondire nelle linee guida la gestione del paziente anziano in quelle condizioni che impongono l’utilità di iniziare o di non iniziare un trattamento, così come di intensificare o al contrario di interrompere una terapia con farmaci antipertensivi.

Nelle raccomandazioni del JNC 7 è descritta la necessità di trattare l’ipertensione negli anziani che frequentemente vanno incontro a insorgenza di ipertensione o a peggioramento di una condizione già nota di tale patologia. Nessuna menzione compare riguardo gli anziani fragili [4].

In maniera diversa, le linee guida del 2017 evidenziano l’importanza della valutazione delle patologie croniche, della fragilità e della speranza di vita del paziente anziano, inclusa la possibilità di prevedere i benefici derivanti dal trattamento farmacologico. In particolare, riporta ancora il testo, sono più a rischio degli eventi avversi di un’eccessiva terapia antipertensiva i pazienti con frequenti cadute, con deterioramento cognitivo avanzato e con multiple comorbidità. Infine sono da considerare anche la preferenza del paziente e un approccio multidisciplinare per poter decidere sull’intensità del trattamento e sulla scelta dei farmaci antipertensivi [3].

Gli studi dai quali le line guida prendono spunto per arrivare a tali conclusioni sono molteplici. Eppure sono molti i trial clinici sull’ipertensione che hanno escluso gli anziani, e non esistono attualmente studi dedicati specificatamente agli anziani fragili al di fuori delle residenze per anziani [12]. Lo studio HYVET (Hypertension in Very Elderly Trial) ha considerato esclusivamente 3845 soggetti di età maggiore o uguale a 80 anni con valori di pressione sistolica maggiori o uguali a 160 mmHg, confrontando il trattamento attivo (il diuretico indapamide supplementato, se necessario, dall’ACE-inibitore perindopril) con il placebo [13]. Lo studio Americano SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial) ha arruolato 9361 persone allo scopo di determinare gli effetti derivanti dalla riduzione della pressione sistolica sotto 140 mmHg paragonandoli con quelli secondari alla riduzione della sistolica sotto 120 mmHg. Il trattamento più intensivo rispetto a quello standard è risultato più efficace nel ridurre il rischio cardiovascolare e il rischio di morte da tutte le cause [14]. In effetti, sia lo studio HYVET che lo studio SPRINT sono stati bloccati precocemente per il benefico che hanno mostrato nella riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori e della mortalità da tutte le cause quando diminuisce la pressione sistolica. Tuttavia, lo studio HYVET ha reclutato pazienti in buone condizioni fisiche e mentali escludendo malattie e individui fragili. In più non sono stati presi in considerazione soggetti con rilevante ipotensione ortostatica. Un’altra critica mossa dagli studiosi è il fatto di aver largamente reclutato soggetti provenienti dalla Cina e dall’Est Europa e pochi dall’Europa occidentale. Similmente, lo studio SPRINT ha nella schiera degli esclusi soggetti con ridotti valori di PA (meno di 110 mm Hg) e pazienti col diabete. L’ACCORD trial (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes), al contrario, aveva l’obiettivo di valutare gli effetti del trattamento antipertensivo standard e intensivo in pazienti con diabete mellito di tipo 2 ed età media di 62 anni [15]. A differenza dello studio SPRINT, l’approccio più intensivo non ha mostrato benefici nella popolazione studiata se non nella riduzione dell’incidenza di stroke.

In conclusione, le line guida ACC/AHA del 2017 hanno il vantaggio di porre ulteriormente l’attenzione sulla necessità di diagnosticare e trattare l’ipertensione arteriosa, incoraggiando le modifiche dello stile di vita a tutti i livelli e al contempo suggerendo di intraprendere o intensificare la terapia nei soggetti che hanno valori di pressione eccessivi o un alto rischio cardiovascolare.
Riguardo gli anziani, è importante la valutazione complessiva del soggetto e il giudizio clinico da parte del medico o del team multidisciplinare che lo ha in cura. L’età cronologica da sola non deve essere il determinante nella decisione di trattare o meno il paziente; allo stesso tempo la scelta di ricorrere alla terapia farmacologica deve essere presa con cautela, soprattutto per gli anziani fragili che non richiedono eccessive riduzioni della pressione arteriosa.
In qualità di principale “consumatore” di farmaci antipertensivi, lo stato clinico e funzionale dell’anziano non deve essere trascurato, e a tal fine servono studi focalizzati su questa categoria di individui, compresi gli anziani fragili, che non sono ancora abbastanza rappresentati nei trial clinici.

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Available from: http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/67215/1/WHO_NMH_NPH_02.8.pdf
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